Sono solo alcune delle procedure contenute nel decreto ministeriale del 2 novembre 2015 su “Disposizioni relative ai requisiti di qualità e sicurezza del sangue e degli emocomponenti”. Il caso della donna morta a Vimercate lo scorso 13 settembre, a seguito dello scambio accidentale di una sacca, riaccende inevitabilmente l’attenzione su cosa e come fare per evitare che si ripetano tragedie del genere.
Come spiega il presidente di Simti (la Società italiana di medicina trasfusionale e immunoematologia), Pierluigi Berti, “non sappiamo di preciso cosa sia successo a Vimercate, saranno le indagini in corso ad accertarlo (la Procura di Monza ha aperto un fascicolo per omicidio colposo dopo aver acquisito la cartella clinica grazie alla quale è risalita all’identità del personale sanitario che ha assistito la donna che, a quanto riporta ilgiorno.it, sarebbe giunta nel reparto di Ortopedia senza il braccialetto identificativo, ndr). Tuttavia è verosimile che qualcuno dei passaggi previsti nella procedura dei controlli sia saltato, così da aver trasfuso una unità di sangue AB0 incompatibile che ha causato la morte della paziente”. Berti sottolinea come gli errori umani, insieme alla mancata applicazione di una corretta procedura di identificazione durante una delle diverse fasi del processo trasfusionale, “siano la causa di oltre la metà degli incidenti trasfusionali riportati in letteratura”. Spieghiamo meglio.
Fu l’Oms (l’Organizzazione mondiale della sanità), già nel 2005, a focalizzare questo fatto, indicando i momenti in cui l’errore è più frequente: somministrazione di farmaci, prelievi venosi, interventi chirurgici e, appunto, trasfusione di sangue ed emocomponenti. Benché l’errore faccia parte della natura umana, è possibile mettere in atto una serie di misure per cercare di ridurre al massimo le percentuali che si verifichi e, conseguentemente, di impedire che quell’errore provochi un incidente trasfusionale e, nel peggiore dei casi, la morte del paziente.
Ma cosa bisogna fare allora per ridurre al massimo questi rischi? “Per evitare che venga trasfusa un’unità di sangue AB0 incompatibile, oltre a seguire le procedure previste dal decreto ministeriale, sono necessari supporti informatici come lettori portatili di codici a barre, sistemi di lettura RFId, sistemi di identificazione biometrica – spiega Berti -. Questi sistemi, oltre a monitorare l’intero processo trasfusionale, in caso di problemi richiamano l’attenzione dell’operatore sanitario grazie agli allarmi visivi e acustici di cui sono dotati. In più, devono tracciare le operazioni eseguite e inviare messaggi di allarme al responsabile dell’emovigilanza nel caso in cui non fossero utilizzati”. Regole che sono disciplinate, dal 2005, dalla legge n°219 del 21 ottobre.
Proprio la Simti, nel corso della Maratona Patto per la salute organizzata lo scorso luglio dal ministero della Salute, tra le varie proposte presentate, aveva rilanciato quella di favorire su tutto il territorio nazionale l’adozione di questi sistemi elettronici di sicurezza per garantire ai pazienti una trasfusione sicura. “Da diversi anni, in Italia, il rischio di contrarre un’infezione con la trasfusione di sangue è molto basso – conclude il presidente -. Se però negli ultimi 10 anni non si sono registrati casi di infezioni almeno per gli agenti biologici testati, come Hcv, Hbv, Hiv e sifilide, lo stesso non si può dire per il rischio di ricevere una sacca sbagliata. Occorre quindi investire risorse e promuovere la formazione di tutti gli operatori coinvolti, così da garantire a tutti i nostri pazienti una trasfusione sicura e non farli morire per errori così banali”.
fonte: donatorih24.it3